ero - quarta elementare


Arriva il nuovo maestro e ci bastona tutti.
A questo maestro augurammo ogni tipo di malanno che allora potevamo concepire: alle mani, che batteva sulla cattedra con uno schianto che ci faceva balzare piccoli cuori in petto; alla bocca così avrebbe taciuto; al naso, che aveva estremamente prominente, bitorzoluto, popolato di peli adunchi sia internamente stia esternamente. Ci domandavamo come mai un tale vecchio bacucco si reggesse ancora in piedi tale da percorrere ogni mattina ed ogni primo pomeriggio la strada da casa sua alla scuola e ritorno. Invece il maestro, con passo fermo, instancabile, ed estremamente allungato e bilanciato agilmente sulle gambe, a velocità folle veniva alla scuola superando le piccole frotte di alunni che a drappelli si raccoglievano agli angoli delle vie per dirigersi ai luoghi di studio. Immancabilmente il grande cerbero ossuto arrivava in anticipo su qualsiasi campanella si prendesse l'ardire di suonare prima del suo insediamento affinché lo trovassimo già nell'aula, impettito nel suo camice nero che poi avremmo trovato molto simile alle camicie nere fasciste, pronto e risoluto a toglierci il fiato, la speranza, qualsiasi possibile gioia nell'apprendimento. Le mattinate procedevano con la lentezza caratteristica del tempo che scorre in un vestibolo di sala di tortura. Ogni occasione era dal nostro aguzzino colta per umiliare qualsiasi nostro tipo di orgoglio larvale e fanciullesco. Con minuziosità degne di un intagliatore di avorio giapponese, il nostro maestro spiegava, trasmetteva nozioni in modo chiaro, secco, preciso. Ad alta voce scandiva ogni parola affinché entrasse in quelle marce testoline che lui riteneva totalmente incapaci di qualsiasi processo di apprendimento e terminava la sua esposizione, già punteggiata di esplosioni di rabbia furiosa nei confronti di chiunque avesse l'ardire di provocare il minimo rumore, con un colpo secco dato a palmo aperto sulla scrivania o per mezzo di una lunga asta di sezione quadrata di circa 2 cm e mezzo per 2 cm e mezzo e lunga più di 3 m e mezzo che era la sua arma d'ordinanza prediletta.
L'utilizzo di questo giavellotto, non appuntito, ma dagli spigoli vivi e taglienti era padroneggiato con sublime capacità ed agilità inattese per una cariatide quale il nostro tiranno era. Egli era capace, da seduto, in un tempo paragonabile alle movenze della mangusta, di scagliare il giavellotto in fondo alla classe con un tiro teso, preciso, infallibile. Il target era il malcapitato che veniva colto a parlare a fior di labbra al proprio compagno. La vittima vedeva piombare verso di sé la sezione sottile ma implacabile di quell'asta che attraversava la grandissima aula e che noi, nelle file intermedie, vedevamo come al rallentatore passare sfrecciando, sentendoci sollevati di vederla di fianco, non di fronte diretta a qualche parte scelta con mira assoluta dal lanciatore.
L'asta arrivava al bersaglio, messo in allarme dall'abbassarsi repentino di teste dei compagni davanti, ma non colpiva mai parti vitali: essa arrivava a cogliere un braccio, un gomito, una mano lasciati incautamente indifesi. Col tempo avremmo conseguito un addestramento di riflessi incredibile ed il giavellotto perdette per noi quella valenza di terrore per divenire una sfida. Alcuni di noi, i più frequenti bersagli dell'arma, avrebbero poi sviluppato un talento particolare per evitare l'asta: preventivo, occultandosi come ombre dietro alla figura del compagni davanti; oppure acquistando movimenti a scatti di faina, difficili da seguire.

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